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03/05/2009 – T. PASQUALE – ANNO B – 4 DOMENICA – 2009

Preparazione alla celebrazione della messa.

4ª DOMENICA DI PASQUA.
Anno B – 3 Maggio 2009

Preparazione alla celebrazione della messa.

Ci Raccogliamo
davanti al Signore Gesù, Dio fatto uomo, che si dona, muore, risorge, trasmette lo Spirito (Nota 1).
Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo. Amen.
Ascolta, Israele: io sono il Signore Dio tuo…! (Ascolta N. [tuo nome]; ascolta, Chiesa che sei in.. [nomi di parrocchie, comunità, famiglie. Le presentiamo al Padre come membra di Gesù che vive presentandogli tutta l’umanità. Gli presentiamo in Cristo anche singole persone: ascolta N. [nome d’una persona]. E tutti, con disponibilità ad accogliere la propria esistenza in Cristo, diciamo:).
Eccomi, Signore, aiuta tutti, come ora aiuti noi ad ascoltarti.

Leggiamo
il formulario liturgico della messa corrispondente, da Ingresso a Dopocomun. Cogliamo una parola, la contestualizziamo «rileggendo» (cfr sotto), e la ripetiamo al ricordo del Signore.

Rileggiamo
i testi, cominciando dal vangelo (cfr PNLMR):
adorando, pregando e contemplando Gesù, presente.

Nel vangelo di Giovanni (10,11-18; cfr nota 2) è ripetuta l’espressione «io sono il buon pastore» nei vv. 11.14 (nota 3). Questo elemento letterario struttura la pericope in due brani: nel primo (vv. 11-13) si trova l’antitesi tra il pastore e i mercenari, e nel secondo (vv.14-18) il rapporto tra il pastore e le pecore come il Padre. In quest’ultimo brano (vv. 14-18) si nota un’ulteriore suddivisione tematica: nei vv. 14-16 viene presentato il tema pastore-pecore e nei vv. 17-18, in continuazione con il discorso generale, viene ripreso il tema del dono della vita.

Gesù, il pastore ideale, dona la propria vita per i suoi.

Adoriamo

Il Signore Gesù: che ci salva tutti, a tutti i costi, come «preziosi» ai suoi occhi.
La prima strofa mette in evidenza il tema «offrire la vita per le pecore», e lo pone su un orizzonte ben preciso: il confronto fra il mercenario e il pastore. Il pastore sa dare la vita per le pecore, perché, quando c’è il lupo, lui non fugge, il mercenario invece fugge (nota 4). Motivo? Le pecore non appartengono al mercenario; ma al pastore, sì! Qual è il concetto che sta sotto? Ricordiamo il cap. 6 del vangelo di Giovanni: alla fine del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, Gesù manda i suoi discepoli a raccogliere i pezzi avanzati. Motivo: perché nulla vada perduto. Subito dopo Gesù sale sulla montagna, perché vogliono farlo re. La folla si disperde. I discepoli passano il lago di Genezaret, Gesù cammina, li raggiunge; poi ritroviamo Gesù nella sinagoga di Cafarnao, discute con la gente sulla manna, sul miracolo avvenuto, sul valore e il significato della manna, e ad un certo momento Gesù dice una cosa particolare; dice: “Tutto ciò che il Padre mi da, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che «io non perda nulla di quanto egli mi ha dato»” (Gv 6 37-39). Questa affermazione è molto importante. Ritorniamo al miracolo del cap. sei di Giovanni: per noi quei pani e quei pesci simboleggiano l’eucaristia; e raccogliamo tutto perché niente vada perduto dell’eucaristia; è il sommo rispetto per la presenza reale di Cristo. Noi abbiamo questo senso di rispetto verso l’eucaristia: «nulla deve andare perduto». Gesù ha questo senso di rispetto per noi, perché «nulla vada perduto». La «cosa grande» che l’eucaristia è per noi, noi lo siamo per Cristo. A questo sembra alludere Paolo quando dice di non mangiare più carne, piuttosto di scandalizzare «un debole, per il quale Cristo è morto» (1Cor 8,9-13; vedi nota 8). Se non sembrasse un qualcosa di eccessivo, dovremmo dire che noi siamo l’eucaristia di Gesù. L’eucaristia, per noi, è «qualcosa di assolutamente prezioso»; noi, per Gesù Cristo, siamo «qualcosa di assolutamente prezioso». Il «grande rispetto» che noi dobbiamo avere per l’eucaristia «è lo stesso grande rispetto» che Cristo ha per noi: “Nulla vada perduto”. Dunque il compito del pastore è duplice: dare la vita; perché nulla vada perduto.
Dare la vita anche a chi merita la morte? Sta ripetendo lo stesso tema che abbiamo trovato al cap. 6 di Giovanni. Qui lo dice con altre parole, alludendo al «lupo» che distrugge e disperde le pecore. In Geremia (5,6-7; vedi nota 3) c’è un versetto molto particolare, dove il profeta dice: Dio ha permesso che il leone, il leopardo e il lupo aggredissero il popolo di Dio come castigo «per i loro peccati». Il «lupo», qui menzionato, sarebbe dunque, nella simbologia profetica, il castigo per i peccati d’Israele (nota 9). Giovanni conosceva questo brano di Geremia, e ha inteso dire che Gesù è disposto a dare la vita, anche quando noi siamo peccatori, e meriteremmo di essere aggrediti dal castigo di Dio. Questo che dice Giovanni, riportando il pensiero di Gesù, è un’affermazione importantissima, perché è l’adempimento d’una grande profezia, quella della «nuova alleanza», di Geremia cap. 31, dove il profeta ripete: ci sarà una nuova Alleanza, con una caratteristica importante; il castigo sarà completamente cancellato, e tutti potranno fare esperienza di Dio, in quanto peccano e vengono perdonati subito; cioè, la sequenza: colpa – castigo – perdono, non ci sarà più, perché in questa sequenza mancherà il castigo: in mezzo fra colpa e perdono non c’è più il castigo. Qui tornano tutti e due questi temi: 1°. Nulla vada perduto, nel senso che l’uomo e la donna vengono perdonati; 2°. E sono perdonati anche se peccatori: non vengono castigati; c’è il Pastore. Questo Pastore costituisce la difesa dell’aggressività del castigo, simboleggiato dal lupo. L’evangelista evidenzia la caparbia volontà di Cristo di salvare tutti, qualunque sia la situazione in cui le persone si trovano. In questa prima strofa viene spiegato il significato di «dare la vita». Per Cristo, dare la vita significa morire al posto nostro, perché non ci sia castigo di Dio, significa salvare tutti noi a tutti i costi. Questa è la logica della prima strofa. – La pietra scartata dai costruttori è divenuta pietra d’angolo.

Il Signore Gesù: che ci fa fare esperienza reciproca nell’eucaristia e nella Parola.
La seconda strofa si apre con la stessa frase: “Io sono il buon pastore”; ma mentre nella prima strofa Gesù si è posto in rapporto al mercenario, in questa seconda Gesù si mette in rapporto con i discepoli e con il Padre, dicendo: “Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me; come il Padre conosce me, e io conosco il Padre”. Sappiamo che la parola «conoscere» nel greco di Giovanni non va mai allacciata al fatto intellettivo, bensì al «fare esperienza» (nota 5); sostituiamo quindi «conoscere» con «fare esperienza», e intuiamo come la conoscenza che ha il Padre di Gesù, e la conoscenza che ha Gesù del Padre non è libresca; è fatta di vita concreta. Gesù dice che lo stesso tipo di conoscenza esiste tra Lui e noi, e tra noi e Lui. Molto bello a dirsi; ma in concreto, che cosa significa per noi «fare esperienza di Lui», e per Lui «fare esperienza di noi»? Finora abbiamo capito che “Conosco le mie pecore = io faccio esperienza con le mie pecore; e le mie pecore conoscono me = fanno esperienza di me; come il Padre fa esperienza di me, e io faccio esperienza del Padre”. Restando nel testo di Giovanni (c. sesto), troviamo pure le parole esperienziali di Gesù: “Chi mangia la mia carne e bene il mio sangue…”. Mangiare e bere non è un fatto intellettivo; è un fatto esperienziale, è una conoscenza di tipo biblico; e sempre nello stesso c. sesto Gesù aggiunge: “Se le mie parole restano in voi…”! Si tratta dell’esperienza dell’ascolto; è un altro fatto esperienziale: le parole si ascoltano. Qui entriamo nel grosso problema: che cosa significa «ascoltare» nel mondo orientale? Per noi esiste il verbo «ascoltare» e il verbo «udire»; anche in greco esiste la stessa suddivisione. «Acroàomai» = udire, cioè sento qualcosa, lo registro e poi lo metto da parte o lo butto via; invece Akoùô è il nostro ascoltare, nel senso di registrare e tenere dentro con un processo ben preciso; non è solo una questione di capire quello che ci vien detto. Akoùô in greco, shamàh in ebraico, indicano quel processo interiore, anche un po’ faticoso, rappresentato nell’immagine del «covare: tenere al caldo perché il pulcino nasca e cresca», che è capire e portare: dalla comprensione al mondo del sentire. Nella lettera di Giacomo (Gc 1,19) si dice, con un’altra immagine: «Siate (non «pronti», ma «takis») veloci nell’ascoltare”. Come si è «veloci» nell’ascoltare? Come si compie questo processo: dal capire al mondo del sentire? Facendo diventare un proprio modo di pensare, con tutto un mondo di sentimenti impliciti, quel concetto che abbiamo ascoltato e cercato di capire. Gesù pone dunque su due versanti la nostra esperienza di Lui: «mangiare» il pane «dell’eucaristia», e «della parola». È molto importante! Non si tratta di far finta che Cristo sia dentro di noi, non si tratta di armeggiare con la nostra fantasia; ma è un fatto esperienziale: «l’eucaristia» è un fatto in cui noi sensibilmente e materialmente facciamo contatto con lui, lo «conosciamo»; «la Parola» di Dio è un fatto materiale con cui sensibilmente facciamo «conoscenza» con lui. Ora rileggiamo, forse comprendendo meglio: “Io sono il Buon Pastore, «conosco» le mie pecore e le mie pecore «conoscono» me; come il Padre conosce me e io conosco il Padre”; e torna fuori un’altra volta l’offerta della vita, come chiasmo: “E offro la vita per le pecore”. Qui, di per sé, il discorso si chiude, secondo la stilistica letteraria dell’inclusione. Come dire: guarda che adesso intendo entrare in un altro discorso. La prima strofa (v.1), infatti, inizia dicendo: “Io sono il buon Pastore”; la seconda inizia pure con: “Io sono il buon Pastore”. Due strofe. Ma dopo l’apertura della prima strofa, c’è subito l’espressione: «offro la vita»; e ora, alla fine della seconda strofa, c’è ancora la stessa espressione: «offrire la vita», che unisce le due strofe, e pone termine a quel discorso. Il materiale letterario che viene dopo, non appartiene a queste due strofe, ma forma una terza riflessione. – Dunque Gesù ci ha detto con chiarezza nella prima strofa: voi siete come pecore guidate da un pastore; il pastore che io sono. Siete peccatori, non importa: io ho il compito di non perdere niente, il castigo che vi sta per venire addosso, perché peccatori, scordatevelo: non vi arriva; faccio io da scudo. Ciò che è importante per noi non è essere impeccabili di fronte alla legge: in me, dice Gesù, siete sempre vincenti. Perché non avete fatto nessun peccato? No! Cristo non ti chiede questo, ma chiede l’esperienza; dice: io sono il vostro pastore, il buon pastore: esigo da voi che di me facciate esperienza; mi accogliate come Colui che si dona «per voi». Abbiamo visto che l’esperienza fondamentale è «l’esperienza dell’eucaristia e della Parola».
Prima di continuare con il terzo discorso, domandiamoci per un attimo: a che cosa si è ispirato Gesù per fare questo discorso: “Io sono il buon Pastore”? Al salmo 22 (23): “Il Signore è il mio Pastore, non manco di nulla”. Siamo partiti dal fatto che Gesù chiede una conoscenza esperienziale. In questo salmo è sottolineata l’esperienza, ma in un altro scenario: c’è il pastore che guida me, pecora, ai pascoli erbosi, ad acque tranquille: “Se anche vado per una valle della morte, io non temo alcun male”. Da questa situazione campestre, poi, siamo portati davanti ad «una mensa»: “Il Signore prepara una mensa sotto gli occhi dei miei nemici”. Segue un gesto: viene versato l’olio, e il profumo riempie la casa. Chiediamoci: questo salmo, riguardante sempre Dio-Pastore, e il credente-pecora, cosa intende dire? Osserviamo: nella prima parte, c’è movimento; nella seconda, stasi. Un ebreo come poteva leggerlo? Movimento, nell’esodo; stasi, nel dono della terra. Ora, pensiamo cristianamente: cosa significa l’acqua menzionata (“ad acque tranquille mi conduce”) per il cristiano? Risposta: “Fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno. Questo diceva per indicare lo Spirito” (Gv 7,38) che Lui avrebbe donato, e sarebbe uscito dal grembo del credente (Progrediamo a piccoli passi: la parola di Dio va presa un granellino alla volta). Domandiamoci ancora: che cosa vuol dire «lo Spirito Santo»? Nelle lettere pastorali (Iª e IIª Timoteo, e lettera a Tito), a un certo punto Paolo dice: “Tutte le scritture sono «theo-pneustòs» (= Dio-Spirito), cioè: “Tutte le scritture sono «ispirate» o «per opera dello Spirito»”. In altre parole: come viene a noi lo Spirito? Per opera del Battesimo, e attraverso la Cresima, ma sempre «mediante la Parola». Allora, il cristiano, quando legge questo salmo, scorge Gesù che gli fa fare l’esperienza di Lui, perché è Lui la Guida, attraverso la Parola e attraverso l’eucaristia. La lettura cristologica di questo salmo ci obbliga a leggerlo in questa maniera, e notiamo che Gesù lo ha tradotto in termini estremamente delicati in queste parole del vangelo: “Io sono il buon Pastore”, e, “offro la vita per le pecore”. In Ezechiele (c. 36), poi, Dio sostituirà i pastori (noi) che non valgono niente (nota 10), perché colui che guida le persone è sempre Dio, non noi (Ebrei 9,11: “Avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci con fiducia al trono della grazia”; cfr anche Ebr 10,21). Il prete, non è pastore, è un semplice ministro del sacerdozio di Cristo; anzi, non è neanche sacerdote, perché l’unico sacerdote è Lui, Cristo. – La pietra scartata dai costruttori è divenuta pietra d’angolo.

Il Signore Gesù: che è il Pastore di tutti gli uomini, ebreo cristiani, e pagano cristiani.
Veniamo all’altra riflessione, numero tre: una serie di affermazioni agglomerate che non appartengono più alla struttura letteraria precedente. Gesù dice: “E ho altre pecore che non sono di questo ovile, anche queste devo condurre, ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore” (nota 6). Si tratta di qualcosa che riguarda il presente o appartiene al futuro? «E ho altre pecore» (presente), «ascolteranno» (futuro); è un qualcosa che riguarda il futuro: siamo noi, queste pecore future, rispetto ai quei contemporanei di Gesù. Possono ragionare subito con il criterio della pecora, appena sentono questo discorso, solo gli «ebreo – cristiani», perché è tipico del mondo ebraico, proprio a causa dell’esperienza profetica e salmica, auto comprendersi come «pecore del gregge di Dio». Nella letteratura greca, per un greco, invece, «pecora», è dispregiativo. Sono i futuri «pagano-cristiani» che un po’ alla volta capiscono di essere anche loro parte integrante del gregge di Dio, gregge che ascolta la Parola. Quindi, queste altre pecore sarebbero i cristiani di area «pagano-cristiana»: siamo noi. Dunque, fanno parte integrante del gregge, non solo i figli di Abramo, ma anche i pagano – cristiani. Per la chiesa nascente questa era una realtà tremenda, più o meno come se noi oggi dicessimo: i protestanti per appartenere ad un’unica chiesa devono tornare cattolici. Forse tutti noi saremmo tentati di dire: Sì. Per 1054 anni la chiesa cattolica è stata duplice, occidente e oriente; con il 16 sec. è comparso un terzo polmone, un po’ sui generis, che è il mondo protestante. Questa nuova realtà ha il diritto – dovere di rimanere se stessa; ha però il dovere di accogliere alcune verità che ha messo da parte; ma l’esperienza di questa chiesa non può essere buttata via. Devono solo completare la loro identità; non rinunciare ad essa. Se dentro a questa loro esperienza cominciano ad accettare la presenza reale, la transustanziazione, se accettano il primato pontificio, e l’ordine sacro, cioè i sette sacramenti, nessuno chiede loro di abbandonare la loro esperienza: devono solo completarla. Sono un’altra esperienza di Chiesa. Noi ci rammarichiamo solo perché è incompleta; é sbagliata perché non è completa. – La pietra scartata dai costruttori è divenuta pietra d’angolo.

Il Signore Gesù: che, morendo e risorgendo per noi, compie il progetto del Padre.
“Per questo il Padre mi ama, perché offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo (nota 7). Nessuno me la toglie: ma la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comandamento che ho ricevuto dal Padre mio”. Quale comandamento? E noi, rischiando di essere figli del venerdì santo, diciamo: quello di offrire la vita. – No; ma quello 1°: di offrirla e 2°: di riprenderla. Questo è il comando di Dio. Leggiamo bene il testo. «Per questo il Padre mi ha mandato»: a) perché io offra la mia vita; b) per poi riprendermela di nuovo. Per che cosa il Padre ama Gesù Cristo? Per queste due cose: offrire la vita, e riprendersela. Il versetto 18 dice: Gesù sceglie di fare questo gioco tragico e glorioso. Gesù non morirà per caso, ma perché egli sceglie di morire; e preavvisa che non risorgerà per caso, ma perché egli sceglie di vivere. Gesù sceglie di vivere, Gesù sceglie di morire. Isaia (c. 53), riguardo al Servo di Javè, dice chiaramente la crudeltà con cui il Servo di Javè sarebbe morto. Gesù ha piena coscienza di essere il Servo di Javè, che adempie la profezia. Gesù dice che morirà male. Alla tragedia della croce non si può togliere niente. Cristo sceglie questa tragedia, e ci garantisce che egli è il Padrone della vita. Il Padre lo ama per questo.
Mettendo insieme queste riflessioni, ci domandiamo: perché Gesù sceglie di dare la vita in quel modo? Risposta: perché egli è il Buon Pastore; perché nulla vada perduto; perché noi non abbiamo più nessun castigo; perché noi abbiamo invece solo la salvezza. Gesù fa questa scelta unicamente per questo. Ecco perché il Padre lo ama. Non è una prova di forza contro la morte; è una prova di amore per le persone alle quali non chiede l’impeccabilità; chiede l’esperienza di Dio (“Conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me). Cristo vuole questo da noi. Il Padre ama Gesù per il comando che il Padre gli ha dato.
Lo dimostra un episodio di Samuele con Saul (1Samuele 15,22). Rivolgendosi a Saul, Samuele dice una cosa molto pesante. Per smontare la bugia di Saul, che aveva disobbedito agli ordini di Dio (Il Signore gli aveva detto: distruggi tutto; e Saul invece mette da parte qualche cosa), Samuele gli chiede conto. Saul si giustifica, dicendo: ho tenuto da parte qualcosa per poi offrirlo a Javè. – Ma Javè ti aveva già chiesto di bruciare tutto. – Samuele conclude: l’obbedienza è meglio di qualunque offerta sacrificale: “il vero culto a Dio è l’obbedienza”.
Ora rileggiamo le parole di Gesù: “Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comandamento che ho ricevuto dal Padre mio”. Se Gesù fosse solo morto, e non fosse risorto, avrebbe obbedito al comando del Padre? No. Per Gesù, l’obbedienza è stata «morire e risorgere». Quando si parla del sacrificio, non si parla del Calvario soltanto, ma della morte e della risurrezione: insieme morte e risurrezione sono il sacrificio di Cristo. Alla luce di queste affermazioni noi adesso possiamo benissimo capire quando Paolo nella lettera ai Romani (12,1) dice: “Offrite i vostri corpi come sacrificio «vivente»”, cioè, un sacrificio che promuova la vita dentro di noi, e che contamini di vita gli altri, perché è santo.
Riassumendo il brano evangelico, estremamente bello, cogliamo quattro discorsi.
Il primo: io do la vita per voi, perché niente vada perduto: ricordiamo il parallelo con il capitolo sei di Giovanni. Siete peccatori: non importa; a voi è risparmiato qualunque castigo, perché io do la vita per voi affiche niente vada perduto: il lupo-il castigo non mangi.
Il secondo: ciò che Cristo chiede è «l’esperienza di Lui». Io sono il Pastore modello, faccio esperienza con le mie pecore, e le mie pecore fanno esperienza di me. Abbiamo visto che cosa significa «fare esperienza» alla luce di quello che afferma il salmo 22 (23): prima la parola, in cammino come i due di Emmaus; poi l’eucaristia, mensa in terra promessa: Gesù.
Il terzo: Gesù è il Pastore di tutti gli uomini, «ebreo cristiani», e «pagano cristiani». Seguire Gesù significa essere un solo gregge sotto un solo pastore.
Il quarto: ciò che Cristo compie è esattamente il progetto del Padre, e lo compie in totale obbedienza a Lui: morire e risorgere per noi, è il suo vero sacrificio. Paolo dice che la nostra vita non è altro che il replay di quello che Gesù ha vissuto (nota 11). – La pietra scartata dai costruttori è divenuta pietra d’angolo.

Il Signore Gesù: unica nostra salvezza; in lui è stabilito che noi siamo salvati.
La prima lettura (Atti 4,8-12): «In quei giorni Pietro, pieno di Spirito Santo disse ai capi del popolo e agli anziani: “Visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato ad un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato”».
Si riferisce al famoso miracolo della porta Bella, quando questo povero diceva: dammi una palanca. E Pietro risponde: io palanche non ne ho, ma quello che ho te lo do: alzati e cammina in nome di Gesù Cristo. Il Cristo per mezzo dei suoi discepoli salva questo uomo; è Cristo che opera in favore di questo uomo, come Cristo opera in favore di tutti gli uomini. Nel vangelo abbiamo trovato il buon Pastore. Qui il buon Pastore sta con un’altra veste; ma è sempre lui che opera la salvezza, è lui che dà la vita.
“Questo Gesù è la Pietra che scartata da voi costruttori è diventata testata d’angolo”.
È citazione del salmo 118, molto frequente nella chiesa nascente, proprio per indicare il Gesù crocifisso, «pietra scartata da voi costruttori, diventata testata d’angolo per opera di Dio. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati”.
Dietro a queste parole vediamo la lettera agli Efesini (2,9): “Perciò Dio lo ha esaltato, e gli dato il «Nome», che è al di sopra d’ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi». Nessun altro ha fatto tanto per l’uomo. Per questo motivo Pietro conclude: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati». – La pietra scartata dai costruttori è divenuta pietra d’angolo.

Il Signore Gesù: egli è la salvezza; ci fa diventare simili a lui.
La salvezza, infatti, è diventare «simili a lui». Seconda lettura (Gv 3,1-2): “Carissimi vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto Lui”. Provate a sostituire il verbo «conosco» (greco: «gignòscô»), con il verbo «fare esperienza». Il mondo non può fare esperienza di noi, perché noi per il mondo sragioniamo, non possiamo essere compresi, perché il nostro modo di ragionare, non è facile; e il mondo, quando si parla di perdono non capisce che cos’è, non ha fatto esperienza, perché nella giungla della società, ha ragione chi distrugge l’avversario. Nel mondo della finanza, poi, si trova un’unica logica, quella del profitto, e non della persona. Il mondo non ci può capire, perché noi cerchiamo, in una maniera forse rozza, di recepire la logica di Dio, e fare esperienza di rispetto della persona, come Gesù fa. Esempio: una coppia ha quattro figli; tre normali, e uno handicappato. Logica vuole che mamma e papà amino tutti i figli in maniera uguale; in tal caso sarebbe una disgrazia per il figlio handicappato, che ha ricevuto meno da madre natura; egli merita essere amato di più. Nel momento in cui i genitori amano di più questo figlio, cioè, nel momento in cui sono ingiusti, secondo il mondo, sono giusti secondo Dio. Questo è Dio: quando noi entriamo in questa logica, non siamo capiti. La ragione per cui il mondo non fa esperienza di noi, è perché non ha fatto «esperienza di Dio»: non entra nella logica di Dio. Ma nella misura in cui noi seguiamo questo criterio, sperimentiamo la figliolanza divina, e Giovanni può aggiungere:
“Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”.
Traduciamo. Molto di Dio non capiamo ancora; anzi, niente. Nessun problema: capiremo. Così, noi tentiamo di avvicinarci per capire qualcosa, assorbendo il modo di ragionare, di pensare e di vivere di Dio; ma il mondo si caratterizza nel non avere di questi problemi, e non capisce; ma anche per noi non è tutto chiaro: tentar di fare nostro il suo modo di pensare e di ragionare non è ancora il massimo, perché, dice Giovanni, saremo addirittura “una cosa sola con lui, quando lo vedremo così come egli è”.

Preghiamo.

Grazie, Padre, per il tuo Figlio:
il Buon Pastore che depone la sua vita per riprenderla di nuovo, e radunare il gregge sotto un unico Pastore, presso di Te.
“Dio onnipotente e misericordioso, guidaci al possesso della gioia eterna”. L’umile gregge dei tuoi fedeli giunga là, dove lo ha preceduto il suo capo e Pastore, Gesù” (colletta generale; nota 12).

Ora, Padre, manda lo Spirito:
Gesù in mezzo a noi, ci risana e ci fa aderire alla tua volontà pasquale di morte e risurrezione; c’istruisce su la rinuncia in vista dell’aumento di vita.
“Dio creatore e padre che fai risplendere la gloria del Signore risorto quando nel suo nome è risanata l’infermità della condizione umana, raduna gli uomini dispersi nell’unità di una sola famiglia, perché aderendo a Cristo buon pastore, gustino la gioia di essere tuoi figli” (colletta anno B).

In noi, Padre, si offre a te Gesù:
donando la sua vita, e riprendendola di nuovo, egli ci fa gustare la gioia di essere tuoi figli nel Figlio, buon Pastore.
Tutti, Padre, accogli in Cristo: radunati nell’unico gregge, sotto l’unico Pastore, giudei e greci, da tutti i popoli, giungano ai pascoli eterni del cielo.
A te, Padre, ogni onore e gloria: dall’umanità che fai risplendere di nuova luce in Cristo, buon Pastore.
In lui tu ci introduci nella tua vita di intima comunione; concedici di aderire al tuo Figlio che hai designato fondamento della tua Chiesa. Per lo stesso Cristo nostro Signore. Amen.

Contempliamo

il Padre, che, in cinque tappe, convoca in Cristo, buon Pastore, Capo della Chiesa, i credenti in lui (vedi LG 2):
sin dall’inizio, nella Creazione,
i pastori che conducono, pascolano, radunano, difendono il loro gregge, che hanno a cuore, come loro proprietà;
nella storia d’Israele, antica alleanza,
il pastore, Javè, fedele al suo patto d’amore per Israele, che salva tutti ad ogni costo; dice a Mosè di pentirsi del bene fatto all’infedele suo popolo; ma perché Mosè lo preghi ed Egli lo esaudisca. Già prima con Noè dice d’essersi pentito d’aver fatto l’uomo, perché, sì, era “cosa molto buona”, ma poi volge tutto il suo cuore al male; manda il diluvio che lo distrugge; e poi promette di non farlo più, perché l’uomo è cattivo fin dalla nascita.
in Cristo Gesù, negli ultimi tempi,
come si compie il sacrificio di morte e risurrezione per la salvezza di Tutti, in obbedienza al comando del Padre;
nella chiesa, per lo Spirito effuso,
raffigurata in Pietro e Giovanni, il buon Pastore che continua la sua opera salvifica in mezzo agli uomini;
alla fine, nella gloria della Trinità,
il Pastore che raduna l’umanità gioiosa, redenta dal sangue prezioso di Cristo.
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Nota1.
La Parola di Dio, Proclamata in questa celebrazione, richiamata dall’antifona alla Comunione (cf Tempo Pasquale – Anno B – 4ª Domenica – 11/05/2003), e approfondita anche da altri testi eucologici (cf ad es. 07/05/2006), «attua ora» sacramentalmente in noi la redenzione, realizzata fin dall’evento pasquale della morte e risurrezione di Gesù il sette – nove Aprile del trenta d.C.
La Parola di Dio «attua ora sacramentalmente in noi la redenzione», perché lo stesso evento pasquale di duemila anni fa, con la sua efficacia, è in atto nella Parola «Proclamata» in quest’Eucaristia; la stessa «opera di Gesù» è in atto quindi in circostanze diverse: «storiche» di quel tempo in Israele, «sacramentali» (gesti e parole) ora nella sua Parola proclamata.
La Parola («Dabàr») è «Fatto e Parola» («Dabàr Javè» = «Fatto e Parola di Javè»); lo stesso «Fatto» storico della Pasqua di Gesù (che soffre, muore, trasmette lo Spirito, risorge) per opera dello Spirito Santo è presente in questa «Parola» proclamata nell’assemblea liturgica; anzi, «in previsione» della sua pasqua redentrice era già presente fin nel grembo di Maria.
Noi ora, come Maria, diciamo: “Sì”, con il cuore bendisposto nel celebrare. La redenzione, operata nei «misteri» (gesti e parole di Gesù nel rito), trasforma tutta la nostra vita. La Parola proclamata nella liturgia, cioè, lo stesso Gesù pasquale, ispira e attua i vari momenti della celebrazione e dell’esistenza in chi l’accoglie.
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Nota 2.
Gesù propone una similitudine tratta dall’ambiente pastorizia (Gv 10,1-5). Poiché tale similitudine non viene compresa (v. 6: «Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro»), Gesù ne dà una spiegazione in due momenti. Prima identifica se stesso con la porta dell’ovile (vv. 7-10), poi identifica se stesso con il buon pastore (vv. 11-18). Quest’ultimo è il brano scelto dalla liturgia come Vangelo (Gv 10,11-18). Gesù è il buon pastore, anzi il pastore vero o unico pastore. I suoi discepoli, di conseguenza, sono paragonati alle pecore. L’immagine è molto lontana dalla nostra sensibilità, ma può essere ricuperata attraverso la meditazione della lettura di alcuni testi veterotestamentari, in modo particolare di Is 40,10-11, del Sal 22(22), di Ger 31,9-11 e di Ez 34,1-31.
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Nota 3.
L’espressione «il buon pastore», «poimèn ho kalòs», racchiuderebbe il concetto di ideale, modello di perfezione per antonomasia, di eccellenza (buon pastore = «il modello di pastore» = «il pastore modello», «il vero pastore», «il pastore ideale»). Il pastore pasce per amore, il mercenario per denaro (e, quindi, permette che il lupo rapisca e disperda le pecore).
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Nota 4.
Il mercenario non è interessato alle pecore. Questo non-interesse si potrebbe scorgere nei farisei, nei capi politici e forse anche in Giuda, uno dei Dodici. L’atteggiamento di Giuda è dipinto come uno al quale «non importava niente dei poveri» (stessa espressione di Gv 10,13), era ladro e cercava il proprio vantaggio (cf. Gv 12,6). Anche i farisei hanno un comportamento simile: maledicono il popolo perché ignorante della legge (Gv 7,49) e lo espellono dalla sinagoga (cf. Gv 9,22.34). I capi politici pensano solo al loro potere (cf. Gv 11,48).
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Nota 5.
Il rapporto conoscenza-esperienza, che esiste tra Gesù-pastore e i suoi discepoli-pecore, riproduce lo stesso rapporto che esiste tra Gesù e il Padre. La vita divina che intercorre tra Padre e Figlio viene donata ai discepoli. In questo modo i discepoli hanno in sé la vita divina. Questo è possibile perché il Pastore offre «la vita per le pecore». Tale dono divino nasce dall’offerta sacrificale della vita che il Figlio compie in obbedienza al Padre. La confidenza del pastore con le pecore rappresenta la comunione di vita tra i fedeli e Dio (cf. Gv 1,12-13).
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Nota 6.
Le «altre pecore» rappresentano i pagani che, ascoltando la voce di Gesù, verranno a far parte dell’unica Chiesa. Cristo, infatti, illumina ogni uomo (1,9) e perciò è il salvatore del mondo (4,42). L’universalismo di Dio è evidente.
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Nota 7.
Gesù, accettando liberamente e obbedienzialmente di morire (offrire la vita), sa di entrare nuovamente nell’ambito divino che gli è proprio (riprendere la vita). La crocifissione e la risurrezione, infatti, sono i due aspetti della glorificazione di Cristo. Poiché il gregge appartiene al Padre, ciò che Gesù compie è fondamentalmente il progetto del Padre, e il bene del gregge (realtà coincidenti). Tutto ciò che fa Cristo, dunque, è per il Padre e per il gregge. Si può, di conseguenza, affermare che la ripresa della vita da parte di Gesù non è per sé, ma in obbedienza al Padre a favore del gregge. Egli, infatti, non riprende solo per sé la vita, ma anche per tutti, coloro che vivono in virtù della sua opera di salvezza (cf. lCor 15,45). La salvezza, infatti, è diventare «simili a lui» (cf. la seconda lettura: 1Gv 3,1-2). Ciò che dovrebbe far riflettere è che nessun altro ha fatto questo per l’uomo. Per questo motivo «in nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati» (cf. la conclusione della prima lettura: At 4,8-12).
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Nota 8.
“Badate che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. Se uno infatti vede te, che hai la scienza, stare a convito in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni immolate agli idoli? Ed ecco, per la tua scienza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello” (1Cor 8,9-13).
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nota 9
«Per questo li azzanna il leone della foresta, il lupo delle steppe ne fa scempio, il leopardo sta in agguato vicino alle loro città quanti ne escono saranno sbranati; perché si sono moltiplicati i loro peccati, sono aumentate le loro ribellioni. Perché ti dovrei perdonare?
I tuoi figli mi hanno abbandonato, hanno giurato per chi non è Dio. Io li ho saziati ed essi hanno commesso adulterio (= si sono rivolti verso altri dèi, e li adorano =), si affollano nelle case di prostituzione» (Ger 5,6 -7).
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nota 10
Ezechiele 34,11-16: Dio è il pastore in Gesù.
Dice il Signore Dio: “Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. Le ritirerò dai popoli e le radunerò da tutte le regioni. Le ricondurrò nella loro terra e le farò pascolare sui monti d’Israele, nelle valli e in tutte le praterie della regione. Le condurrò in ottime pasture e il loro ovile sarà sui monti alti d’Israele; là riposeranno in un buon ovile e avranno rigogliosi pascoli sui monti d’Israele. Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia”.

Ezechiele 36,22-36:
Annunzia alla casa d’Israele: Così dice il Signore Dio: “Io agisco non per riguardo a voi, gente d’Israele, ma per amore del mio nome santo, che voi avete disonorato fra le genti presso le quali siete andati. Santificherò il mio nome grande, disonorato fra le genti, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le genti sapranno che io sono il Signore – parola del Signore Dio – quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi. Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi, e vi farò vivere secondo i miei statuti, e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo, e io sarò il vostro Dio. Vi libererò da tutte le vostre impurità: chiamerò il grano e lo moltiplicherò e non vi manderò più la carestia. Moltiplicherò i frutti degli alberi e il prodotto dei campi, perché non soffriate più la vergogna della fame fra le genti. Vi ricorderete della vostra cattiva condotta e delle vostre azioni che non erano buone e proverete disgusto di voi stessi per le vostre iniquità e le vostre nefandezze. Non per riguardo a voi, io agisco – dice il Signore Dio – Sappiatelo bene. Vergognatevi e arrossite della vostra condotta, o Israeliti”. Così dice il Signore Dio: “Quando vi avrò purificati da tutte le vostre iniquità, vi farò riabitare le vostre città, e le vostre rovine saranno ricostruite. Quella terra desolata, che agli occhi di ogni viandante appariva un deserto, sarà ricoltivata e si dirà: La terra, che era desolata, è diventata ora come il giardino dell’Eden, le città rovinate, desolate e sconvolte, ora sono fortificate e abitate. I popoli che saranno rimasti attorno a voi sapranno che io, il Signore, ho ricostruito ciò che era distrutto e ricoltivato la terra che era un deserto. Io, il Signore, l’ho detto e lo farò” (Ez 36,22-36).
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nota 11.
Non possiamo fermarci alle mortificazioni, non è spiritualità evangelica la mortificazione, ma la promozione della vita è la mentalità evangelica (nota 11). Se vuoi promuovere la vita dentro di te, guarda che devi dire tanti «no». Quei «no» li dici a ciò che ti porta verso la morte; allora promuovi la vita. Questo è il nostro sacrificio, l’obbedienza a Dio è su questa linea.Quando lui vorrà, ci chiederà il sacrificio come l’ha chiesto a Cristo, cioè, di deporre la vita nelle sue mani.
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nota 12
Possesso della gioia eterna è lasciarci voler bene gratis da lui, non sentirci debitori nei suoi confronti, perché Gesù ha scelto di amarci, e questa gioia eterna già oggi la pregustiamo con l’esperienza di lui (eucaristia e parola), ma la gioia eterna sarà molto di più, perché Giovanni ci ha detto, nella seconda lettura: “Lo vedremo così come egli è”. “Perché l’umile gregge dei tuoi fedeli giunga con sicurezza accanto a te, dove lo ha preceduto il Cristo suo pastore”. Il testo latino è molto più bello. La traduzione è come se avesse svuotato il testo. Il latino dice: “Perché Il capo senza il corpo non può vivere; Cristo senza di noi non può vivere. All’inizio della prima riflessione del vangelo dicevamo: ciò che l’eucaristia è per noi, noi siamo per lui! Allora, poi, in seconda battuta, capisco che prima arriva il pastore poi arriva il gregge; ma se volessimo tradurre in esperienza umana, questo concetto lo potremmo tradurre così: se una mamma va in paradiso, e in paradiso non va anche suo figlio; per quella madre, che paradiso può essere quello? Se Cristo è con il Padre, e Cristo non ha accanto a sé ognuno di noi; che cos’è per Cristo stare accanto al Padre, quando gli manca qualcuno di cui il Padre gli aveva detto: “Guarda che nessuno si perda!”.
Qui sta la radice della lode e gratitudine a Dio, della trasformazione nei fedeli, della nuova capacità di «offerta vivente» in Cristo al Padre, come dice Paolo (Rom 12,1), della intercessione perché tutti vengano a godere la beatitudine a cominciare dai nostri conoscenti; qui sta la pienezza dei sentimenti in una lode finale a te, o Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo, fino a «conoscerci come siamo conosciuti», noi, tuoi fedeli, là, dove ci ha preceduto il nostro capo e Pastore, Gesù.
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condividiamo (cfr neretto) la preghiera della Chiesa (cfr colori).