30/05/2004 – PENTECOSTE – ANNO C – GiorLectioDiv – 2004
Breve Lectio Divina su testi della messa del giorno di Pentecoste anno C.
30 Maggio 2004
Atti 2.
Mentre il giorno di pentecoste si avvia al compimento — anche se l’evento narrato accade verso le nove del mattino, la festa era però cominciata alla sera precedente — si compie anche la promessa di Gesù (1,1-5), in un contesto che richiama le grandi teofanie dell’Antico Testamento e in particolare quella di Es 19, preludio al dono della Legge che il giudaismo celebrava appunto il giorno di pentecoste. Lo Spirito è presentato come pienezza. Egli è compimento della promessa. Come vento gagliardo riempie tutta la casa e tutti i presenti; come fuoco teofanico assume l’aspetto di lingue di fuoco che si posano su ciascuno, comunicando il potere di una parola infuocata, in molteplici lingue (vv. 3s.).
L’evento avviene in un luogo delimitato (v. 1) e coinvolge un numero ristretto di persone, ma da questo momento, a partire da quelle persone, ha inizio un’opera evangelizzatrice dalle sconfinate dimensioni (“Ogni nazione che è sotto il cielo”: v. 5b). Il dono della parola, primo carisma suscitato dallo Spirito, è finalizzato alla lode del Padre e all’annunzio, perché tutti, per la testimonianza dei discepoli, possano aprirsi alla fede e rendere gloria a Dio (v. lib). Due caratteristiche contraddistinguono questa nuova capacità di comunicazione elargita dallo Spirito: in primo luogo essa è comprensibile a ciascuno, realizzando l’unità linguistica distrutta da Babele (Gen 11,1-9); in secondo luogo sembra ricollegarsi alla parola estatica dei più antichi profeti (cfr. 1 Sam 10,5-7) e comunque è interpretata come profetica dallo stesso Pietro, quando spiega l’accaduto ai Giudei di ogni provenienza (vv. 17s.).
Lo Spirito irrompe e trasforma il cuore dei discepoli rendendoli capaci di intuire, seguire, testimoniare le vie di Dio per guidare tutte le genti alla piena comunione con lui, ne!l’unità della fede in Gesù Cristo, crocifisso e risorto (vv. 22s. e 38s.; cfr Ef 4,13)
Romani 8.
Scrivendo ai Romani Paolo evidenzia la drammaticità della condizione umana soggetta alla schiavitù del peccato (cfr. 7,14b-25). E indica questa fragilità congenita alla natura con il termine biblico di “carne”. Coloro che si lasciano dominare da questo principio non possono essere graditi a Dio, poiché «l’intento della carne è inimicizia verso Dio” (v. 7, alla lettera). Come allora sfuggire all’ira divina? Un altro principiO dimora e agisce nel battezzati lo Spirito Santo. Il battesimO fa morire al peccato (6,3-6) per immergere nella morte salvifica di Cristo (vv. 35.). Compito del cristianO è quindi quello di lasciar operare in sé ogni giorno il dinamiSmo di morte — al peccato — e di vita — nello Spirito — insito ne battesimo, per divenire sempre pili vivo della vita stessa di Dio (vv. 10-12).
E lo Spirito che rende l’uomo figlio adottivo di Dio inserendolo nella filiazione unica di Cristo. Questa realtà, però, non si compie in un solo momento. E un germe che si sviluppa quotidianamente nella misura della docilità alla sua “guida”. Al centro della lettera compare per Ia prima volta questa splendida definizione dei cristiani, denominati “i guidàti dallo Spirito di Dio”, che perciò sono figli di Dio (v. 14). Lo Spirito conferma interiorniente questa nuova adozione, donando la libertà di pregare Dio con Ia stessa fiducia di Gesù, con Ia sua stessa invocazione filiale (vv. 15s.) e dischiudendo l’orizzonte sconfinato della nuova condizione se si è figli, si è anche eredi del regno di Dio insieme con Cristo, primogenito fra molti fratelli (v. 29).
Questo, però, significa accettare anche di condividere con Gesù l’ora della sofferenza, della passione per passare con lui da morte a vita ed essere strumento di salvezza per Ia redenzione di molti (v. 7; cfr. 1 Pt 4,14).
vangelo Gv 14,15s.23-26
In questa pericope evangelica, tratta dal discorso che Gesù rivolge ai suoi nel cenacolo prima della passione, lo Spirito Santo è presentato come “un altro Paraclito” — cioè un testimone favorevole — che, dopo Gesù e per la sua preghiera, sarà mandate dal Padre ai discepoli per rimanere per sempre con loro (v. 16). Lo Spirito è dunque una realtà personale — non un’energia cosmica impersonale — e divina, che entra in comunione con l’uomo e lo ricolma di amore. Anche qui occorre una precisazione: non si tratta di un amore generico, ma dell’amore di Gesù, che è fatto di concreta attuazione dei suoi comandamenti, delle sue parole, nella fede profonda che egli ci ha parlato secondo il volere di Dio, Padre suo e — in lui — Padre nostro (vv 15.23s.).
Custodire nel cuore e nella vita questa Parola: dilata l’intimo di colui che si fa discepolo e lo rende capace di accogliere la presenza di Dio, che contraccambia infinitamente l’umile amore dell’uomo, ponendo in lui la sua tenda (secondo l’immagine biblica della shekinah, la presenza gloriosa di Dio in mezzo al suo popolo) per dimorarvi, insieme a Gesù (v. 23). E questa la promessa di una comunione che Gesù offre a tutti: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola… Prenderemo dimora presso di lui». Dopo la sua dipartita non lascerà mancare ai suoi l’insegnamento di vita eterna (6,68), poiché lo Spirito Santo verrà nel suo nome per completare la sua rivelazione facendola comprendere profondamente e facendola ricordare, ossia illuminando costantemente il cammino quotidiano, spesso oscuro, con raggi di eternità (vv. 25-27).